21 settembre - 26 ottobre 2017

Dal 21 settembre al 26 ottobre Officine Saffi e Galleria Monopoli sono liete di presentare una doppia mostra - due artisti in due sedi – dedicata agli ultimi lavori di Keiji Ito (Toki, 1935) e Kazuhito Nagasawa (Osaka, 1968). Gli artisti, entrambi giapponesi, attualizzano il tradizionale medium ceramico in sculture e opere a parete dal fascino discreto.


Il titolo della mostra – Shibui - si riferisce infatti ad un particolare principio estetico giapponese che coniuga le caratteristiche contrastanti di ruvidità e raffinatezza. Il termine Shibui venne utilizzato a partire dal periodo Muromachi (1336-1573) per descrivere il gusto astringente dei cachi acerbi. Più tardi, lo stesso termine venne associato a un particolare canone estetico usato per riferirsi a qualsiasi cosa bella per essere sottovalutata e priva di particolari elaborazioni. Il fascino di un oggetto shibui sta proprio in questo suo essere una forza trattenuta, una bellezza nascosta, da scoprire poco a poco, su cui soffermarsi per lungo tempo anche se basta un attimo per intuirla.
Una generazione piena, più di trent’anni, separa anagraficamente Keiji Ito e Kazuhito Nagasawa, e consente, oltre all’apprezzamento specifico di due straordinarie individualità espressive, di svolgere riflessioni utili sul ruolo di riferimento svolto dalla ceramica giapponese contemporanea sul piano internazionale. Nel processo non lineare di apertura e scambio con l’arte occidentale l’arte giapponese moderna ha potuto contare sulla ricerca ceramica come su un’area di tale radicata identità da non subire fascinazioni eteronome: il che ha significato che ha potuto decantare i propri retaggi di tradizione, il proprio localismo, alimentandosi di nuovi pensieri ma non assumendo necessariamente nuovi modi e nuove forme. Non cita, non evoca il primitivo, Keiji Ito, lo rivive e lo rigenera. In questo processo reincontra le ragioni dell’avanguardia novecentesca quando per vie diverse affronta la questione essenziale della figura e sono le versioni di Hito (dialoganti, senza sudditanze, con vicende come quelle di Brancusi, Modigliani, il primo Giacometti), e del suo apparire esteriore, in Omote (per cui basti pensare, utile confronto, alle Masks di Tzara o Man Ray, per non dire delle plurime mode d’art nègre).
Kazuhito Nagasawa è nato nel 1968, e dunque ha potuto operare in tempi nei quali hanno agito fattori problematici, a cominciare dall’adozione dell’intimità della materia non come fatto acquisito ma come scelta consapevole e criticamente attiva, e dal rapporto non esclusivo con la terra in un’area operativa in cui il corpo plastico si offre nel registro doppio, e fastosamente ambiguo, di opera d’autonomo senso e di oggetto: che è un modo, a ben vedere, sia di riprendere la vexata quaestio disciplinare della funzione possibile – posta o contraddetta, posta e contraddetta – ma straniandola al punto che diventi essa stessa la materia problematica dell’opera, sia di ragionare in termini di materia pura in una forma pura, di sostanza capace di pronunciarsi e di offrire la propria sostanza fragrante, che è colore e rapporto con la luce, convocazione oggettiva di spazio e introversione potente, assumendo a riferimento un unico elementare differenziale